Swans @ Circolo Degli Artisti [Roma, 11 ottobre 2014]

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Attitudine e Visual: È nella dinamica dell’eccesso dall’animo gotico, dell’iperbole reiterata, dell’estremo dilatato lungo dissonanze fatte di contrasti dagli istanti sonori rarefatti e brutali che gli Swans inanellano le loro litanie inquiete e oscure sul palco del Circolo Degli Artisti, sold out per l’occasione. Ad aprire la serata: il noise-industrial sferzante e velenoso della bionda newyorkese Margaret Chardiet, in arte Pharmakon, che come un “farmaco” indolente scaraventa attimi che stridono tra gli amplificatori, filtrando un’elettronica delittuosa e un industrial primordiale a urla vocali crude e feroci. Ed è poi la volta del gong…del fragore assordante, delle liturgie da “cotone idrofilo”, dei vortici cadenzati all’infinito, di quell’universo primitivo, ovattato e lontano che gli Swans sanno sapientemente disegnare live. Senza tecnica fine a se stessa, lontani dalla perfezione strumentale certosina e deliberata, ma con la semplicità di una sezione ritmica incisiva e ripetuta fino a un passo dall’eterno, gli Swans si muovono tra deflagrazione e rumore, “paranoie” mentali e allucinazioni psichiche. Michael Gira, interamente vestito di nero, è austero e inflessibile, ogni tanto chiede di modificare l’intensità delle luci in sala, lascia poco spazio ai discorsi e ampio raggio d’azione al vigore cosmico del “boom sound”. Il suo cantato, che alterna mantra catartici a parole decantate e “poemi inquieti” e modulati, cerca di farsi strada tra le asperità taglienti del suono, mentre Norman Westberg, Christoph Hahn, Phil Puleo, il vichingo Thor Harris, a torso nudo durante tutta la durata del concerto, e Christopher Pravdica elargiscono, esplosioni, espansioni e distorsioni, visioni irraggiungibili e apocalittiche.

Audio: Anche se la voce di Gira fa spesso fatica a emergere tra le ossessive bordate ritmiche, il poderoso muro sonoro costruito dagli strumenti e i volumi altissimi riescono a permeare interamente i sensi, ad avvolgere, senza via di scampo, le orecchie dei presenti, a vibrare prepotentemente e a oscillare col suono stesso.

Setlist: C’è il gioco dell’improvvisazione che si fa strada tra gli interminabili e corposi voli strumentali e le iterazioni diffuse. Ci sono brani come Just A Little Boy, A Little God In My Hands, She Loves Us!, Bring The Sun (dall’ultimo album To Be Kind) e ancora The Apostate (da The Seer), i due inediti Don’t Go e Frankie M e i saluti finali tra gli applausi del pubblico.

Momento migliore: Due ore e mezzo interminabili di suoni cangianti, di sperimentalismo estremo, di angoli bui e rumorosi che sembrano continuare all’infinito in un unicum denso e inaccessibile.

Pubblico: Con o senza tappi alle orecchie, il folto pubblico sembra in trance, rapito e perso tra le metafonie sonore degli Swans, a metà strada tra meditazione e coerente delirio.

Locura: Non pervenuta

Conclusioni: Ci sono poche band che, anche a distanza di anni, sono capaci di reinventare con coraggio dei veri e propri manifesti di rarefatta e incessante violenza sonora, degli spaccati sonori che si espandono sino a raggiungere un altrove sconosciuto. Gli Swans ci riescono ancora, nel bene e nel male, all’interno di un concerto sicuramente non per tutti che fa sempre ronzare un pò le orecchie e vibrare gli animi…Apostati neri del suono per un live che è alienazione, sinonimo crudo e desolato di morte e redenzione.

(pubblicato su www.rocklab.it)

This Will Destroy You @ Circolo Degli Artisti [Roma, 24 settembre 2014]

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Attitudine e Visual:

Quando le parole non servono, giunge il suono col suo magma incandescente ad abbarbicarsi tra visioni di matrice strumentale; quando mancano le parole, ci si trova spesso immersi da maree post rock come nel caso della musica dei texani This Will Destroy You. In scena al Circolo degli Artisti, la band di San Marcos, con un look da “gente di montagna” (cappellino con visiera compreso), sviscera così il suo sound mescolando, tra quiete e tempesta, lo stile tipico del genere a dilatazioni dal sapore ambient e lambendo territori doom e shoegaze (o doomgaze come la band ama definirsi), per un live in balia di melodia e visioni sperimentali. In apertura i Lymbyc Systym, Jared e Michael Bell due fratelli dell’Arizona, che giocano in maniera quasi goliardica con l’elettronica fusa all’impronta più propriamente strumentale, raggiunti sul finale dai This Will Destroy You per eseguire alcuni brani dello split Field Studies. Successivamente i suoni si fanno via via più cangianti tra attimi chiaroscurali e immagini in negativo di animali, meduse e leggiadre ballerine che scorrono sullo schermo, mentre le chitarre di Jeremy Galindo e Christopher Royal King  “lottano” pacatamente con le scariche di batteria di Alex Bhore e le melodie vengono inseguite dal basso di Donovan “Dono” Jones e accompagnate morbidamente dalle sue tastiere, dipingendo un live che attimo dopo attimo si colma di gradazioni ritmiche sempre più energiche, catartiche e ipnotiche.

Audio:

Il suono sembra seguire splendidamente l’andamento del concerto stesso, ovattato e sognante nei momenti più distesi e reboante, sino a far vibrare prepotentemente i bassi sotto i piedi, negli istanti più carichi e corrosivi del live.

Setlist/Momento migliore:

Gran parte del live è affidato alla presentazione dell’ultimo album Another Language, senza dimenticare il passato della band, in un turbine infinito di suoni che si affastellano tra loro aumentando brano dopo brano, in un unico crescendo ritmico di lava sonora che non ha fine. Calma eterea e oscurità pesante e penetrante si fondono e si confondono tra loro, mentre la band si piega sui propri strumenti e sull’intensità dei pezzi senza spendere alcuna parola se non nel finale, tra battute sulla partita proiettata prima del live e i ringraziamenti, per elargire un potente alternarsi di grazia e pulsante muro di note e di esasperazione sonora. Fra i brani del nuovo album spiccano Dustism, Invitation, War prayer e New Topia. Vengono proposti poi brani dall’Ep Young Mountain (I Believe In Your Victory, There Are Some Remedies Worse Than Disease e Quietnel bis), dall’album omonimo del 2008 (Burial on the Presidio Banks, A Three-Legged Workhorse, Villa Del Refugio,Threads) e Black Dunes
da Tunnel Blanket.

Locura:

Non pervenuta

Pubblico:

Sala gremita con un pubblico carico ed euforico soprattutto durante l’esecuzione dei brani più datati del gruppo, spesso attonito e ad occhi chiusi nei momenti più onirici del concerto.

Conclusioni:

I This Will Destroy You, nella contaminazione del post rock con altre e più minacciose tavolozze sonore, sanno creare sapientemente il loro complesso universo ritmico soprattutto in ambito live con una resa inoppugnabile e un’impeccabile pulizia sonora. Costruendo ipotetiche lande cinematografiche attraverso i loro script sonori densi e impalpabili al contempo, alternano visioni di film muti d’altri tempi a oscure trappole noir pregne esclusivamente di suono. Perché quando la parola muore, arrivano i This Will Destroy you a demolire ogni certezza.

(pubblicato su www.rocklab.it)

Pontiak @ Circolo Degli Artisti [Roma, 10 aprile 2014]

Attitudine e visual:
Potenza secca e martellante che penetra nelle ossa col suo miscuglio liberatorio di psichedelia, stoner, blues polveroso e hard rock e che invade il palco del Circolo degli Artisti con cariche di furiosa energia. Il fumo si mescola alle luci, dimezzando la vista, acuendo i labili contorni, allontanando il particolare effimero e amplificando la forza dell’ascolto. I tre fratelli Jennings, Van e Lain Carney sono come un terremoto pronto a creare scompiglio, come una carica di esplosivo pronta a deflagrare. In un fitto gioco di accelerazione e decelerazione, la figura di Van sembra trasfigurare un serpente che si contorce e non lascia mai la sua preda, mentre i mari di riff duri e graffianti si insidiano tra le sabbie sporche di una sezione ritmica incendiaria e le voci sciamano tra echi e vibrazioni criptiche.

 

Audio:
Volumi altissimi, per un suono pieno, perfetto e colmo di quell’imponenza di fuoco tipica della band, fanno tremare la sala lasciando pompare il muro sonoro fino all’inverosimile.

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Setlist:
Interagendo a più riprese col pubblico, la band pesca a piene mani sia dall’ultimo Innocence che dal passato, aprendo con Ghosts eShining per poi proseguire con Shell Skull, Surrounded By DiamondsPart III (dall’Ep Comecrudos), We’ve got it Wrong, Layaway, l’estatica Expanding Sky (da Echo Ono del 2012), White Hands, Royal Colors, It’s The Greatest, Lack Luster Rush, Innocence, Lions Of Least, Beings Of The Rarest, concedendo infine anche un fulmineo quanto luciferino bis.

Momento migliore:
Un’emozione sonica da vivere nella sua più assoluta completezza, mentre l’apocalisse di suoni si impadronisce di tutto.

Pubblico:
La musica dei Pontiak è come un contagio che infetta tutti i presenti, uno sciame sismico che fa muovere il nutritissimo pubblico, mentre l’irruenza sonora li incatena tutti.

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Locura:

“Fuckin’ yes! This is Sambuca” così esordisce Van Carney appena salito sul palco…e dopo un brindisi “corale” a colpi di shots il concerto può cominciare in grande stile.

Conclusioni:
Un live dall’animo cattivo e travolgente che ammalia per la sua non celata forza primordiale e ancestrale. Un concerto che conferma con vigore quel monito scritto per gli ascoltatori tra le note di copertina di Echo Ono“Please, Listen At Full Volume”.

(pubblicato su www.rocklab.it)

 

Toy @ Circolo Degli Artisti [Roma, 31 marzo 2014]

Attitudine e Visual: Attitudine indie-rock su caustico impianto psichedelico sporcato di impeti shoegaze, lacerazioni kraut e deviazioni post punk, questi sono in sostanza i Toy, che al Circolo degli Artisti sembrano quasi stravolgere il proprio repertorio in studio, intensificandone il suono. Nella dimensione live infatti il sound della band acquisisce maggiore carica, maggiore forza propulsiva, impregnando le trame ritmiche di macchie fortemente acide e lisergiche sporcate di intensità rumorista ed energia noise, tra vortici di fumo, istanti in trasparenza, ombre e sagome in controluce e abbaglianti fasci luminosi puntati dritti verso il loro pubblico. I cinque sul palco spingono così il pedale dell’elettricità, costruendo architetture pungenti e vibranti vampate sonore. L’ascolto distorto e dilatato ha la meglio sulla nebulosa visione delle figure sul palco, mentre il gioco di synth, tastiere, chitarre, basso e batteria si fa via via più serrato e spontaneamente si confondono e si amalgamano i limiti tra sonorità e stratificazioni sonore.

 

Audio: La voce di Tom Dougall sembra, volutamente o meno, relegata a mero ruolo di comprimaria, a tratti quasi indefinibile, e sovrastata dal muro di suoni degli strumenti, mentre la piccola imperfezione sonora diviene segno di efficacia naturale ed energia spontanea.
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Setlist: In quasi un’ora e un quarto di concerto la band attinge da entrambi gli album (Toy – 2012 e Join The Dots – 2013) aprendo il live con la lunga strumentale Conductor per poi proseguire conColours Running OutAs We TurnIt’s Been So LongKopter,Dead & GoneFall Out Of Love. La chiusura viene affidata, senza bis, a Join the Dots.

Momento migliore: I momenti nutriti di variazioni armoniche massicce, di lunghe code strumentali destrutturate dall’acidità ritmica e dalla ruvidezza rumorista del suono.

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Pubblico: Buona affluenza di pubblico. Un corposo miscuglio generazionale di tutte le età, sempre pronto ad applaudire, annuire, a ballare e ondeggiare durante tutta la durata del live.

Locura: NP

Conclusioni: Nonostante la giovanissima età, sul palco i Toy si dimostrano maturi e padroni delle loro potenzialità. Salta agli occhi la naturalezza nel dare un taglio del tutto personale e spontaneo a un sound ampiamente sviscerato negli anni da molte altre band affini e la capacità di rendere live ancor più incisivi ed energici i pezzi in studio con un vezzo rivolto a più copiose sporcature sonore. Un concerto il loro paragonabile a una cavalcata lisergica su impervie strade, dagli stili sonori differenti, sovrastate da feedback.

(pubblicato su www.rocklab.it)

 

Ulver @ Circolo Degli Artisti [Roma, 16 febbario 2014]

Attitudine e visual: Ormai lontani dalle derive black metal delle origini, i “lupi” norvegesi del Circolo Degli Artisti tratteggiano sul palco imprevedibili canovacci sonori, insoliti scenari ritmici in bilico tra rumore e silenzio, astrattezza ritmica e concretezza strumentale. Gli Ulver scelgono dunque la via della sperimentazione audace e dell’improvvisazione catartica che scava il suono nel buio della sala, mentre l’iniziale preludio di campane e ferruginose catene lascia il posto agli strumenti e alle sonorità sublimate dal computer e dai campionatori. Synth e droni danzano con le percussioni, con l’eleganza classica delle tastiere di Tore Ylwizaker e le capacità vocali di Kristoffer Rygg. I suoni granitici e monolitici, le modulazioni tonali in balia di elettronica e frequenze volatili si mescolano così alle immagini, a fotogrammi filmici di altri tempi, alle vedute silenziose di 2001: Odissea nello spazio, scimmie e monoliti, “bambole confuse”, danze di scheletri e attimi in bianco e nero che trasportano momenti surreali su immensi volumi sonori ibridi e destrutturanti.

 

Audio: Il suono mastodontico proposto dagli Ulver giunge pieno e corposo, forte e possente come una bomba pronta ad esplodere, un fiume in piena di suoni carichi e vibranti.

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Setlist: Ad accompagnare brani quali England, Dressed in Black, Doom Sticks, Glamour Box (Ostinati), Tomorrow Never Knows eNowhere/Catastrophe, tra pause silenti e istanti corroboranti, fluttuano i mari dell’improvvisazione totale, mentre il bis è infine affidato alla straniante Eitttlane.

Momento migliore: Le lame taglienti dell’improvvisazione, Glamour Box (Ostinati) e le cavalcate distorte di Eitttlane.

Pubblico: Un pubblico numeroso ed eterogeneo, tra barbe e outfit dal forte ascendente metal, spiriti anni Novanta e anime del nuovo millennio.

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Locura: La voce di un ragazzo che grida a squarcia gola tra un pezzo e l’altro “Ulver! Ulver! Ulver! Ulver!”, mentre c’è chi lo segue in un coro unanime, chi è sopraffatto dalle risate e Kristoffer Rygg che ogni tanto ringrazia alzando le mani al cielo.

Conclusioni: Gli Ulver percorrono in definitiva i sublimi confini dell’ignoto e della ricerca accurata del divenire, edificando un live che è frutto della sperimentazione e della metamorfosi. Un viaggio profondo ed estremo fatto di caos e oblio.

(pubblicato su www.rocklab.it)

Motorpsycho @ Circolo Degli Artisti [Roma, 06/05/2013]

DownloadedFileAttitudine e Visual: L’eclettica fusione di generi dei norvegesi Motorpsycho sbarca al Circolo Degli Artisti in tutto il suo monumentale e vorticoso splendore. Quasi due ore e quaranta di concerto in balia di virtuosismi tecnici, arrangiamenti impeccabili, meticolosità fredda e tipicamente nordica nell’esecuzione dei brani, drumming inafferrabile, riff inflessibili, voce urlata, ruvida, stridula e intensa, distorsioni e rarefazioni ritmiche avvolgenti. È dunque la visionarietà, che danza tra allucinazioni abrasive e quiete contemplativa, caos sonoro e delicatezze ritmiche, l’immagine più esaustiva e fedele da associare a questo concerto pregno di musica energica, profonda e sapientemente suonata dall’inizio alla fine. Sul palco questa volta sono in quattro. Bent Sæther, Hans Magnus “Snah” Ryan e Kenneth Kapstad, sono infatti in compagna del chitarrista svedese Reine Fiske, presente anche nel loro ultimo lavoro Still Life With Eggplant. Tra luci con intervalli abbaglianti come meduse fluorescenti, sonorità dense e coinvolgenti, dolcezza e irruenza, melodie dalle sfumature idilliache e rumorismi acidi anni Novanta, la band regge il palco con innata classe e naturalezza e con una incontenibile voglia di suonare, mentre il pubblico in visibilio si gode l’estasi e la pienezza del live.

Audio: Un muro sonoro potente che forse a tratti copre un po’ la parte vocale, ma che riesce a esplodere quando serve e a ritrarsi al momento giusto durante tutta l’immensa durata del concerto.

Attitudine e Visual: L’eclettica fusione di generi dei norvegesi Motorpsycho sbarca al Circolo Degli Artisti in tutto il suo monumentale e vorticoso splendore. Quasi due ore e quaranta di concerto in balia di virtuosismi tecnici, arrangiamenti impeccabili, meticolosità fredda e tipicamente nordica nell’esecuzione dei brani, drumming inafferrabile, riff inflessibili, voce urlata, ruvida, stridula e intensa, distorsioni e rarefazioni ritmiche avvolgenti. È dunque la visionarietà, che danza tra allucinazioni abrasive e quiete contemplativa, caos sonoro e delicatezze ritmiche, l’immagine più esaustiva e fedele da associare a questo concerto pregno di musica energica, profonda e sapientemente suonata dall’inizio alla fine. Sul palco questa volta sono in quattro. Bent Sæther, Hans Magnus “Snah” Ryan e Kenneth Kapstad, sono infatti in compagna del chitarrista svedese Reine Fiske, presente anche nel loro ultimo lavoro Still Life With Eggplant. Tra luci con intervalli abbaglianti come meduse fluorescenti, sonorità dense e coinvolgenti, dolcezza e irruenza, melodie dalle sfumature idilliache e rumorismi acidi anni Novanta, la band regge il palco con innata classe e naturalezza e con una incontenibile voglia di suonare, mentre il pubblico in visibilio si gode l’estasi e la pienezza del live.

Audio: Un muro sonoro potente che forse a tratti copre un po’ la parte vocale, ma che riesce a esplodere quando serve e a ritrarsi al momento giusto durante tutta l’immensa durata del concerto.

Momento migliore: Difficilissimo trovare un momento migliore all’interno di un live interamente bello, lungo, inteso e  simile a un’unica e interminabile cavalcata sonora. Ascoltare poi track by track Blissard dal vivo e non semplicemente su cd fa il suo effetto, emozionante e indescrivibile.

Pubblico: Una marea umana di persone, un pubblico davvero eterogeneo che segue il live con enfasi trascendente tra mani alzate, danze, stupore, acclamazioni e cori.

Locura: Nessun episodio rilevante di locura, se non legato alle esplosioni di calore e al desiderio di musica dei presenti.

Conclusioni: Con insindacabile bravura e rara perizia tecnica i Motorpsycho, vichinghi poliedrici e potenti, sperimentatori epici e lirici, costruiscono un live che si fa rituale collettivo intenso, immaginazione coinvolgente, incantesimo catartico e seducente per tutti i presenti.

(pubblicato su www.rocklab.it)

Efterklang @ Circolo Degli Artisti [Roma, 05/05/2013]

imagesAttitudine e Visual: Si posa su dinamiche raffinate, tanto compositive quanto formali e di look, questo live degli Efterklang al Circolo Degli Artisti, che nella giusta contrapposizione di voci e suono sprigiona un interessante innesto di elettronica e dream pop. C’è infatti una certa eleganza signorile nei suoni,  nelle movenze del gruppo, nel cantato del frontman Casper Clausen e nella voce lirica, forse a volte un po’ fuori dal mood originario della band, di Katinka Fogh Vindelev, sommersi dalle bianche luci e dalle ombre del palco. Il live, anticipato dalla proiezione di The Ghost of Piramida, un denso racconto in immagini del viaggio a Piramida intrapreso dalla band e diretto da Andreas Koefoed, si muove così lungo traiettorie intense e coinvolgenti, su delicatezze sonore e simpatiche interazioni di Clausen con il pubblico, come nel caso di una scatola colma di gadget di vario genere raccolti durante il precedente concerto a Istanbul e consegnata ai presenti invogliandoli a svuotarne il contenuto e invitandoli a riempire lo scatolone di nuovi oggetti da regalare al pubblico del prossimo live, in una sorta di scambio potenziale di esistenze e di virtuale condivisione tra i fan stessi della band.

Audio: Un audio che riesce bene a modellare voci e strumenti e ad amalgamare la miscela di suoni proposta dal gruppo.

Setlist: Il live, che a tratti si veste quasi di un nuovo sound rispetto alla strutturazione dei brani in studio, è dedicato solo in parte all’esecuzione dei pezzi tratti da Piramida, a partire daHollow Mountain per passare aThe Ghost, Dreams Today eSedna. Viene infatti proposta sul palco Frida Found A Friend (da Parades, 2003)e alcuni brani, tra i più incisivi di tutto il concerto, tratti da Magic Chairs, come I Was Playng Drums, Harmonics, una originale e affascinate versione di Alikedurante il bis e Modern Drift.

Momento Migliore: Personalmente ed emotivamente, i pezzi che rendono meglio nella dimensione live, così come in studio, sono sicuramente quelli di Magic Chairs con la dolcezza elegiaca di I Was Playng Drums, gli stacchi spiazzanti di batteria di Harmonics e la festa di colori di Modern Drift.

Pubblico: Grande affluenza di pubblico che acclama a gran voce il gruppo battendo le mani tanto da sorprendere piacevolmente e far emozionare l’intera band.

Locura: Sicuramente la simpatica idea della scatola, “scrigno dei segreti” pieno di mille oggetti che non ti aspetti, biancheria intima compresa.

Conclusioni: Un concerto piacevole, personale e stimolante, durante il quale la complicità tra pubblico e band diviene fondante e centro nevralgico dell’intera esecuzione. Il punto di forza di un live degli Efterklang risiede in definitiva nelle emozioni calde e gelidamente penetranti che riesce a trasmettere e nella condivisione del luogo “sacro” del concerto stesso con i presenti. Suoni e parole si fondono così nella magia di una fotografia nordica, nella percezione dell’arcobaleno sonoro e multicolore tipico della band.

(pubblicato su www.rocklab.it)

Oneida @ Circolo Degli Artisti [Roma, 23-03-2013]

oneidaAttitudine e Visual: I quindici anni di attività musicale e l’eclettismo sonoro pulsante e camaleontico incarnato dagli Oneida fanno tappa al Circolo Degli Artisti assumendo le sembianze variegate di cariche elettriche distorte e scariche di pura adrenalina. Il sound tipico della band di Brooklyn prende così vita sul palco in tutto il suo impetuoso e potente splendore, cesellando ogni singola e poliedrica sfumatura ritmica caratteristica e peculiare nella storia stessa del gruppo. C’è grande sintonia tra tutti i componenti della band, che sembrano proprio divertirsi a costruire il live destrutturando generi e stili, e c’è allegria, coinvolgimento, energica armonia e gioiosa empatia tra loro e il pubblico. Ci sono i tappeti musicali ripetitivi e reiterati, c’è la distante decostruzione di suono e voce, c’è la furia esplosiva della batteria di Kid Millions, c’è la tecnica, le lunghe prodezze sonore acide e le vibrazioni violente. C’è il garage, il noise, l’elettronica, la potenza hard-rock, gli zampilli kraut, i synth, i feedback e l’acidità psichedelica che ben si fondono a una presenza scenica corale, minimale e allo stesso tempo incandescente.

Audio: Buono e ben calibrato, capace di rendere appieno tutti i dettagli ritmici legati ai singoli strumenti e le deformazioni di genere e di suono proposte dagli Oneida.

Setlist: L’energia multiforme degli Oneida si sprigiona attraverso una setlist molto varia che cavalca passato e presente. Si assiste così alle ultime visioni di A List of the Burning Mountains, alle movenze acide di All Arounder e Up With People, agli intercalari ritmici e vocali di Summerland e ancora ci si addentra nei meandri della discografia della band con The River, Ghost in the Room, Snow Machine, I Will Haunt You, Doin’ Business in Japan e la conclusiva distruzione sonora affidata a Sheets of Easter.

Momento migliore: La carica incontenibile del suono e l’ebbrezza delle ripetizioni che si fanno affascinanti come dinamite, deflagranti ed eccitanti in Sheets of Easter.

Pubblico: Numeroso, molto attento a seguire le note dai risvolti dicotomici e violenti e travolto dalla potenza corroborante e “infettiva” del sound proposto dalla band.

Locura: Tanta energia, calore e follia sonora, ma senza alcun episodio rilevante di locura.

Conclusioni: Gli Oneida confermano live la loro bravura, la loro furia distruttiva e seminale dei codici prestabiliti e la loro originale e stravagante tavolozza sonora capace di riuscire a trasportare i presenti attraverso percezioni temporali lontane e moderne al contempo. Un’eclettica “tribù” che suona tra distorsioni e destrutturazioni atipiche sulle note degli anni zero. Una tribù che coinvolge.

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Arbouretum live @ Circolo degli Artisti – Roma, 7 marzo 2013

10145È la compattezza algida e potente di una roccia dai contorni lisergici a invadere il palco del Circolo degli Artisti, con intense ventate di melodia, suono e rumore, ben amalgamate alla struttura compositiva acida e monolitica proposta dalla band di Baltimora.

Sono le sagome dei quattro velate di neopsichedelia dagli arabeschi opachi e caleidoscopici al contempo e avvolte dai fumi sonori, dagli intermezzi ritmici vigorosi e marmorei, dilatati, reiterati e corposi, a esplodere vigorosamente con tutta la loro forza, mentre le profonde e oniriche macchinazioni vocali di Dave Heumann si modellano e si fondono all’apparato strumentale dai risvolti cangianti.

È un misto di fragore e silenzio, energia e pacatezza, mescolati a una fantasia dal piglio moderno e con un occhio sempre rivolto al passato, a costruire il live in tutta la sua durata, rendendo con maggiore intensità rispetto agli album in studio le sonorità tipiche della band.

Qualche problema di audio costringe Dave Heumann a sforzare la voce per farsi sentire al meglio, ma il concerto nel suo complesso non delude e la setlist, che rispolvera buona parte della discografia del gruppo, erompe come un macigno con il brano di apertura Waiting Crescent. Il live prosegue denso e diffuso, tra ballate evanescenti e attimi più energici, inseguendo le onde soniche di The Long Night, Renouncer, Down By The Fall Line, The Promise e con un bis altrettanto efficace.

Il viaggio live degli Arbouretum suona come una conferma, quella di una band che sul palco, tra atmosfere sghembe e lineari, armonia e disacromia, passato e presente, riesce a imbastire un discorso musicale ben fatto che assume le sembianze di un’esplorazione a metà strada tra sogno e realtà.

(pubblicato su www.rockaction.it)