Index For Working Musik – Dragging the Needlework for The Kids at Uphole

Dragging The Needlework For The Kids At Uphole, l’interessante esordio degli Index For Working Musik, custodisce quel sapore polveroso, fumoso e senza tempo di uno scantinato creativo dell’East London, quella forma di libertà che viaggia tra passato e presente. 

Il collettivo, nato nel 2019, dalle menti di Max Oscarnold (TOY, Proper Ornaments) e Nathalia Bruno (Phosphor, DRIFT), ai quali si aggiungono Bobby Voltaire (batteria), E. Smith (contrabbasso) e J. Loftus (chitarre), modella un sound che mescola diversi livelli di “percezione sonora”, dai confini che spesso si fondono e confondono, all’interno di un sogno ritmico che unisce certa acidità psichedelica alla morbidezza dello slowcore, con momenti art rock che duettano con piccole destrutturazioni shoegaze e lievi visioni indie.

Tra straficazioni di elettronica vintage, chitarre sghembe, archi distorti, vocalità rarefatte che sembrano raggiungere un altrove intangibile, l’album si muove intenso tra le maglie di un caleidoscopico deserto di suoni. Fanno così capolino le dilatazioni stridule di Wagner, gli spettri evocativi di Athletes of Exile, le destrutrurazioni strumentali di Narco Myths, Isis Beatles e Petit Commiteé, le fascinazioni spagnole di Palangana. 

In Dragging The Needlework For The Kids At Uphole c’è la realtà intrisa di misticismo; c’è il sogno e l’incubo, la distruzione e la gioia, l’immaginario e il reale; c’è la reiterazione ossessiva e il respiro dolce. Un bel disco dall’animo circolare, fatto di allucinazioni sonore sospese e penetranti. Un album perfetto per staccarsi dal resto del mondo e aprire la mente. 

(pubblicato su www.xtm.it)

dEUS – How To Replace It


Ne sono passati di anni da quell’ultimo Following Sea, undici anni d’assenza che in fondo hanno conservato quel senso di presenza, soprattuto per chi alla musica dei dEUS ha associato momenti, sensazioni, visioni di un istante personale sempre cristallizzato nel presente, per chi ha scoperto il suo universo sonoro e interiore nella triade Worst Case Scenario,In a Bar, Under the Sea e 

The Ideal Crash.

Il nuovo album  How To Replace It conserva il lavoro del tempo reinventandosi. C’è una certa tensione in questo disco, legata al filo delle parole spesso disilluse, ai ricordi che aleggiano tra le note, alla furia che cela le paure, le complessità dei rapporti. C’è una forma canzone morbida che, con meno vigore rispetto al passato, non disdegna le soluzioni ruvidamente sporche. C’è l’immagine di una band cresciuta di pari passo alla musica e che vuole raccontarla al di là di tutto, a modo suo, con la maturità necessaria votata agli anni che passano, al cambiamento. 

I fondatori storici Tom Barman e Klaas Janzoons, assieme a Mauro PawloskiStéphane Misseghers e Alan Gevaert, edificano così un disco denso di stratificazioni sonore a partire dall’oscurità sussurrata della  titletrack per poi lasciare il posto alla mescolanza tra chitarre nineties e cori gospel di  Must Have Been New. Synth industriali accompagnano la torbida  Man Of The House e nebbie sonore avvolgono  Dream Is A Giver. Chiudono il disco la ballad  Love Breaks Down e il fascino un po’ retrò di  Le Blues Polaire , cantata in francese. 

How To Replace It è un bel disco che lascia il segno dopo ripetuti ascolti. È l’album ideale quando la notte ti risucchia tra i suoi dilemmi, per chi guarda al proprio passato rifiutando di esserne inghiottito. 

(pubblicato su www.xtm.it)

Fucked Up – One Day

I canadesi Fucked Up tornano, dopo cinque anni dal precedente Dose Your Dreams, con One Day, realizzando, come da titolo, un disco registrato in un solo giorno, un album che corre sulle rotaie di un’energia serrata e contagiosa. Dopo averci abituati a monumentali concept album e a performance live di 12 ore, One day è il loro lavoro dal minutaggio più ridotto, costruito su quel filo sottile che lega l’hardcore melodico al punk spigoloso, senza disdegnare un gusto raffinato per le fitte nubi armoniche pop rock, un strada sonica questa che era già percepibile in Dose Your Dreams

L’album vive di deflagrazioni sonore, di vortici ritmici infuocati, di parole fortemente personali che celano un dolore, una visione interiore dell’universo esteriore e dell’esistenza tutta. La voce abrasiva di Damian Abraham si scontra e si amalgama perfettamente alle melodie stratificate e travolgenti. Si parte con la furia di Found, mentre nel caos controllato di I Think I Might Be Weird fanno capolino gli archi. Huge New Her, Lords of Kensington e Cicada vivono di aggressioni soffuse che lottano in un magma di voci e Nothing’s Immortal sembra una sorta di filastrocca ruvida.

One Day è un disco che vuole sperimentare e spostare un po’ più in là i confini del genere hardcore punk. Nell’arco di 24 ore i Fucked Up hanno realizzato un album originale, trascinante e fortemente anarchico, all’interno di una visione della vita nuda e cruda che invita a cogliere quell’attimo che potrebbe durare solo un giorno.

At the end of all history

Let just one thing be left of me

What could you do in just one day?

Fall in love, spend your time away”

(pubblicato su www.xtm.it )

The Murder Capital  – Gigi’s Recovery

Strange feeling I’m dealing with

I can’t admit it I lose my grip

That morning I thought I’d skip

This day forever became what if

Existence fading

L’esistenzialismo che mescola le tenebre post punk a certe fluorescenze alt rock targate fine Novanta e Duemila: si potrebbe riassumere così Gigi’s Recovery, secondo album degli irlandesi The Murder Capital. Se il precedente When I Have Fears inglobava tutta l’oscurità post punk e le più cupe tensioni interiori, questo disco, pur conservando l’anima del genere si apre alla sperimentazione, a sonorità più ricche di sfumature, che lambiscono anche l’elettronica densa di campionamenti poggiata su tappeti di synth. C’è sempre un tocco di nero nel disco, modellato su un’anima sonora quasi gotica, ma qui è edificato sull’accettazione e la visione di un futuro, su testi che sono rappresentazione di un itinerario fatto di tormenti, introspezioni e visioni che vogliono accantonare il buio e scovare la luce, mentre la voce muscolare di James McGovern costruisce una forte tensione lirica al tutto. 

Il disco si apre con la breve e spettrale opener Existence, per poi sfociare nella malinconia di Crying  e nei ritmi incalzanti di Return My Head. Un rintocco di campane sinistro apre Ethel, mentre le parole sembrano litanie oscure, e intrecci robotici electro-wave pennellano The Stars Will Leave The Stage. Inquietudini distorte accompagnano The Lie Become The Self e costruzioni vicine ai Radiohead fanno capolino in  A Thousand Lives. Chiude il cerchio Exist. 

Gigi’s Recovery è album ricchissimo di tonalità ritmiche. È un interessante viaggio del sé tra lacrime e synth, strumenti e sangue. È un’esplorazione sonora e interiore volta al cambiamento e all’evoluzione. Furia, angoscia, amore e accettazione confluiscono in questo disco per esplodere attraverso i suoni e i fantasmi di un’esistenza che vuole esistere, mutando forma. 

To stay forever

In my own skin

Existence changing

(pubblicato su www.xtm.it)

Top 2022: My personal Playlist

“You can be the one who saves yourself

Or you can watch it all go to hell”

Il 2022 sta volgendo al termine e con esso è tempo di bilanci dell’anno appena trascorso. In realtà io bilanci non ne ho mai fatti. La vita va presa così come viene, attimo dopo attimo, senza mai voltarsi indietro a pensare a “cosa è stato” o a “cosa sarebbe stato”. Fortunatamente la musica, e aggiungerei l’arte in generale, è sempre lì a scandire la mia esistenza, a donare una carezza, uno schiaffo, un soffio vitale in ogni istante. Qui ci sono gli album del 2022 che ho ascoltato di più in assoluto. Non è una classifica, non amo molto nemmeno quelle…infatti, probabilmente, tutti o quasi i dischi che menzionerò non li troverete in nessuna classifica di fine anno. Questa comunque sono io, nel 2022, attraverso i miei ascolti. Di dischi ve ne lascio 7, numero magico per eccellenza, chissà che non mi/ci porti fortuna per il 2023…e intanto continuiamo a prenderla a morsi questa vita, sempre a ritmo di musica:

The Black Angels – Wilderness of Mirrors

The Afghan Whigs – How Do You Burn?

Goat – Oh Death

The Soft Moon – Exister

Archive – Call To Arms & Angels

Trentemøller – Memoria

Wovenhand – Silver Sash

Goat – Oh Death

La storia musicale dei Goat si muove da sempre inseguendo un certo alone di mistero esoterico e l’attesa di ben sei anni dall’ultimo disco Requiem, con la parentesi di Headsoup, raccolta di b-side, inediti e singoli, è sicuramente servita ad acuire questo lato enigmatico e inafferrabile della band.

Il collettivo celato da maschere tribali, originario di Korpilombolo, una località nella remota contea svedese di Norbotten, la più settentrionale e meno popolosa del Paese, torna così a scavare solchi sonori rituali con Oh Death.

Allontanandosi in parte dalle meditazioni etniche di Requiem e abbracciando le litanie più distorte dei primi World Music Commune, il disco vive di groove granitici, di commistioni sonore, di deflagrazioni e alterazioni ritmiche. La world music in senso stretto viene destrutturata, fusa in una valanga di rumorose allucinazioni psych rock, di tribali deviazioni afro beat e di cerimoniali a metà strada tra funky e spirtual jazz. 

I fuzz fluttuano dirompenti in Son You Die, mentre Chukua Pesa naviga in una desertica e oscura acidità sonora. Le atmosfere funky inebriano Under The Nation e una bellicosa sezione percussiva edifica il sound di Do The Dance.Apegoat è un intermezzo rumorista che sembra fare quasi da negativo sonoro al morbido interludio pianistico di Blessing. Fiamme chitarristiche fanno incursione nella ipnotica Remind Yourself. Passes Like Clouds chiude in maniera più che lisergica il cerchio magico costruito dai Goat.

Oh Death vive di parti strumentali abrasive, di incendi sonori ancor più aggressivi che in passato, di tempeste di suoni in cui ci si immerge con trasporto. Il disco trascende i confini, musicali e geografici, guidato da una carica soprannaturale che non può lasciare indifferenti. Gli sciamani Goat ancora una volta ci fanno fare un estatico giro del Mondo con la loro contagiosa liturgia musicale mistica e selvaggia. 

(pubblicato su www.xtm.it)

LEGGI L’ INTERVISTA AI GOAT

The Soft Moon – Exister

Non è da tutti riuscire a esprimere la propria rabbia e il proprio malessere interiore in maniera così limpida e aperta come invece fa Luis Vasquez in Exister, quinto album a firma The Soft Moon. Nel disco infatti c’è la claustrofobia di quella esistenza che traina il titolo, la vena oscura e martellante di un’angoscia che attraversa il pensiero. 

Come già in Deeper Criminal, e forse in maniera ancor più incessante ed enigmatica, Vasquez percorre la strada di un industrial alla NIN, di derive apocalittiche alla Throbbing Gristle, di cupe meditazioni alla Skinny Puppy, mentre non scompare mai del tutto la sua anima originaria post-punk. Le tracce del disco vivono dunque di allucinazioni gotiche, di synth striduli e freddi, mentre le parole annegano negli abissi dell’Io. 

“I feel sick every day/Inside the sulfur/Burn my soul away” canta Vasquez nell’oscurità dei sintetizzatori di Sad Song, mentre il mantra “I can’t live this way” deflagra nei detriti industriali di “Answers”. Si scava tra le profondità emotive con Become The Lies, un incessante ritmo tribale fa capolino in Face Is Gone e un oscuro e ossessivo tappeto elettronico flagella The Pit. Lande dal sapore dark pennellano NADA e violenze noise Stupid Child. Non mancano le collaborazioni in Him con Fish Narc e in Unforgiven con Alli Logout. Chiude il magma strumentale della title track.

Exister è un gioco di specchi complesso e intenso, in cui le sonorità, mai uguali a sé stesse, distorte e fragorose, affrontano il caos della mente, restituendo labirinti destrutturati che dopo un paio di ascolti arrivano dritti allo stomaco. Tra le maglie del suono, in balia di oscurità e luce, di visioni oniriche e di disperazione, Vasquez sembra dare una sola risposta alla vacua decadenza della vita: esistere per resistere. 

(pubblicato su www.xtm.it)

The Black Angels – Wilderness of Mirrors

L’anima psych dei Black Angels è da sempre imbevuta di visioni altre, di ombre lontane che aleggiano sul suono e sui contenuti. Un universo sonoro fatto di spettri dunque, che già a partire dagli splendidi Passover (2006) Directions to See a Ghost (2008) ha esplorato le viscere della realtà e che con Death Song (2017) ha attraversato l’oscurità sociale e le sue derive. 

Anche l’ultimo Wilderness of Mirrors è depositario delle ferite della società, della follia che sottende a un periodo fatto di annientamento ambientale, pandemie e tumulti politici. Tra le trame fortemente psych del disco, tra riverderi, dilatazioni e fuzz, si ampliano le sperimentazioni e i confini sonori, con l’uso di chitarre acustiche, mellotron, archi e tastiere, imbevendo il disco di nuovi accenti ritmici. 

Alla realizzazione del disco hanno collaborato: Brett Orrison nel ruolo di co-produttore e l’ingegnere del suono dei Dinosaur Jr. John Agnello, oltre a Ramiro Verdooren (The Rotten Mangos), multistrumentista da poco unitosi in line-up al cantante e bassista Alex Maas, ai chitarristi Christian Bland e Jake Garcia e alla batterista Stephanie Bailey.

Le allucinazioni hanno il via con la rivoluzione polverosa di Without A Trace, e procedono col granitico muro garage diHistory Of The Future e il fuoco di fuzz di Empires FallingEl Jardin si muove sinuosa tra le maglie della psichedelia più classica, mentre Firefly, che vede la presenza di  LouLou Ghelichkani dei Thievery Corporation, evoca visioni d’antan. Incede incalzante Make It Known e The River avanza con eleganza. La titletrack e A Walk On The Outside sono pura deflagrazione, mentre 100 Flowers of Paracusia e Here and Now viaggiano su malinconie acustiche. Chiude l’oscurità notturna e misteriosa di Suffocation.

In questo meraviglioso “deserto di specchi”, di suoni che guardano ai Sixties attualizzandoli, Wilderness of Mirrors si muove come disco di ribellione, di lotta interiore in mezzo al caos sociale, come album dai contenuti universali, che attraverso la musica cerca di espiare quei fantasmi che tutti hanno, ma che in pochi hanno il coraggio di raccontare. 

Is it still possible

To be invincible

When everyone else is expendable?”

(pubblicato su www.xtm.it)

The Afghan Whigs – How Do You Burn?

Si percepisce il senso di perdita che aleggia tra le note di How Do You Burn?, ultima creatura degli Afghan Whigs: quella del chitarirsta Dave Rosser morto nel 2017 ma anche di Mark Lanegan, che Greg Dulli vuole ricordare attraverso il titolo dell’album e in brani come Jyja, dove ha contribuito ai cori e in cui la sua voce lontana e oscura sembra permeare i pensieri stessi. C’è anche una rabbia che vuole esplodere tra le parole, nella dolce cupezza dei testi. C’è poi una certa forma di violenza, reale oppure intima, sfogata nella passione e nell’amore, marchio distintivo e intenso dello stile Afghan Whigs. 

Registrato con Dulli, il batterista Patrick Keeler (Raconteurs) e il nuovo chitarrista Christoper Thorn (ex Blind Melon) in uno studio studio di Joshua Tree, mentre il bassista John Curley e il tastierista Rick Nelson hanno dato il loro contributo da remoto in piena pandemia, How Do You Burn? vive di un multistrato sonoro molto più incisivo rispetto ai precedenti Do the Beast (2014) e  In Spades (2017) e la presenza di numerosi collaboratori dona all’album una sorta di interessante atmosfera multidimensionale ed eclettica. Un album che si spinge oltre, non solo attraversando le classiche linee melodiche dei Whigs con quello spirito soul ombroso e sghembo vivo in Please, Baby, Please, ma valicando territori elettrici ed energie ataviche come nel deserto sonoro di  I’ll Make You See God e anche nell’aria inquieta e rarefatta di The Getaway. Poi arriva  Domino & Jimmy, la coppia di My Curse trent’anni dopo, con la voce di Marcy Mays, con quella fantastica tensione emotiva e tossica che sa riempirti di un’inquietudine e di una disillusione necessaria. Chiudono gli spettri dal sangue blues-rock di In Flames.

Un disco pieno di differenti approcci musicali che riesce a svelare una miriade di fantasmi sonori, crudo e delicato al contempo, come l’anima degli Afghan Whigs. Un album che, tra note e parole, disvela i lati più oscuri e in ombra della mente, consumandoti. 

“Like a living ghost, you get lost inside my head”

(pubblicato su www.xtm.it)

Archive – Call To Arms & Angels

“There is no God
No reason to try
No heaven above
To take me away from this hell”


È possibile riuscire a narrare con empatia, attraverso la musica, le verità del mondo odierno, a dare una forma vivida e pura alle ombre del vivere, alle frustrazioni e alle difficoltà dei singoli individui? Con Call To Arms & Angels gli Archive portano a perfetto compimento questa narrazione, questa visione in musica delle forze reali e autentiche che smuovono la quotidianità. Il dodicesimo album in studio del collettivo di South London è infatti un lacerante viaggio nella realtà, nelle distorsioni consce e inconsce che riflettono le nebbie e le inquietudini dei nostri tempi. È un sogno ad occhi aperti sulle derive della vita e della società, un flusso di coscienza intriso di un elegante alt-rock elettronico.

Immerso in una sorta di foschia sonora eterea e impalpabile, questo doppio album di 17 tracce (triplo LP), registrato presso gli studi RAK e prodotto dagli stessi Archive assieme al collaboratore di lunga data Jérome Devoise, si adagia su melodie che fioriscono dolcemente e tracce che sembrano sanguinare di suoni e parole. C’è una meravigliosa stratificazione sonora in questo disco, una giostra di minimalismo, distorsioni ed evanescenza, ben ancorata a una penetrante drammaturgia stilistica. Sorrounded By Ghosts è una poesia celestiale, tra paesaggi pianistici e divagazioni di profondità ambient, mentre Mr. Diasy cavalca ribellioni rock. Numebrs ha un irresistibile incedere electro e Daytime Coma è un vortice di quiete e tempesta. Ci sono poi le tenebre deflagranti di Enemy, Freedom, Gold e The Crown e le morbidezze ritmiche di Alive, Shouting Whitin ed Everything’s Alright.

Call To Arms & Angels vive di atmosfere magnetiche, di visioni autentiche e sonorità trascinanti. Gli Archive in questo disco non danno risposte, ma dipingono magistralmente la realtà sovrastata dai dubbi, costruendo una sorta di forma sonora junghiana dell’inconscio collettivo. La musica, così come i testi, divengono metafora elegante della dicotomia tra luce e oscurità, tra leggerezza e gravosità dell’esistenza tutta. Un disco immersivo e sperimentale, che vuole esplorare a fondo la rabbia interiore e sociale, mentre si anela una via d’uscita, uno spiraglio di luce nel buio abitato da fantasmi.

“And if we stay alive
We can tell them what we’ve done
And if you stay alive
You can tell them what we’ve won
So surrounded by ghosts”

(pubblicato su www.xtm.it)