Pond – Stung!

“It’s a constant picnic, an endless summer”

Nell’ “estate infinita” dei Pond, “Stung!”, arriva con tutta la sua gioiosa forza sperimentale. La decima creatura della band australiana, che negli anni ha fatto del potere collettivo di fare musica il suo vessillo, mescolandosi spesso con i membri dei Tame Impala, si allontana dalla brevità dei precedenti lavori affidandosi alla forza caleidoscopica di un doppio LP. 

Il viaggio di questo disco è un itinerario eclettico di suoni, un arcobaleno colorato dal groove, dove l’iride della neo-psichedelia si sposa con le fluttuazioni funky, col rumore hard rock e con un’attitudine glam dall’animo space rock, senza disdegnare accenni di synth dissolti nella vaporwave. 

C’è poi la visione surreale e riflessiva dei testi di Nick Allbrook, la sua follia sopra le righe che traspare anche quando si tratta di cantare di delusioni e illusioni amorose, di crisi climatiche, come una nuvola passeggera scansata dal sole delle parole e delle note. 

“Constant Picnic” apre il disco con le sue delicatezze eteree, seguita dalla vivacità beffarda di “(I’m) Stung”. Arrivano poi le visioni narcotiche di “Neon River”, il funky di “So Lo” e l’epicità di “Black Lung”. L’interludio “Elf Bar Blues” fa da apripista alla lunga cavalcata cinematografica di “Edge of The World Part III”. “Boy’s Don’t Crash” apre le porte del tempo catapultando l’ascoltatore nei Seventies. Chiude il disco la maestosa ballad “Fell From Grace With The Sea” con una imponente coda sonora distorta.

Stung! è un disco intenso, elaborato e follemente ricco di sfumature sonore. Ha l’euforia della stagione calda, un po’ malinconica e un po’ ridente. Da ascoltare surfando sulle dune di pensieri, contemplando le lacrime tra le stelle e meravigliandosi della luce nel vasto mare del suono.

(pubblicato su www.xtm.it)

Metz – Up On Gravity Hill

I canadesi Metz (il chitarrista e cantante Alex Edkins, il bassista Chris Slorach e il batterista Hayden Menzies), hanno da sempre modellato il suono sulla dissonanza, sull’impetuosità sonora fragorosa. Up On Gravity Hill, quinto album della band, uscito per la Sub Pop, pur conservando questa cifra identitaria del gruppo, sempre tesa, frenetica e aggressiva, rappresenta anche una ulteriore evoluzione del loro sound. 

Questo disco vive di continui cambi di ritmo, in un alternarsi di chiarore e oscurità, un po’ come le ombre che lentamente si adagiano sulla rosa dell’artwork, di arrangiamenti corrosivi e angolari e di armonie più lineari e morbide. La furia sghemba e intricata del suono abbraccia così la profondità di atmosfere più concise e definite. La potenza grezza e l’ intensità ritmica inseguono la melodia, muovendosi tra il post-harcore e lo shoegaze, tra il noise rock e il grunge. 

Up On Gravity Hill  è dunque il riflesso della maturazione stilistica della banda, ma è anche lo specchio della contemporaneità, che nei testi, ancor più diretti e profondi, si apre a nuove dimensioni musicali e di scrittura. L’iniziale No Reservation/Love Comes Crashing, che si avvale dei violini del compositore Owen Pallett, è un’onda di dissonanze. C’è poi la chiarezza diretta di Glass Eye, la tensione di Entwined (Street Light Buzz), le reiterazioni di 99, le oscurità dall’animo post-punk di Superior Mirage. Chiudono il disco gli spiriti nu-gaze di Light Your Way Home, che vede la partecipazione di Amber Webber dei Black Mountain.

Up On Gravity Hill è in definitiva immediatezza contagiosa, suono energico dal sapore Nineties su elementi sospesi tra frastuono e sogno, su visioni emozionali e personali abilmente immerse nel magma sonoro. Un disco dal sapore cinematografico con l’urgenza delle chitarre corrosive e selvagge su tappeti di riverberi, che ti entrano in testa e non vanno più via, mentre si attende che giunga il domani.

“We’ll find our destination and search for tomorrow.”

(pubblicato su www.xtm.it)

Dead Bandit – Memory Thirteen

Gli universi strumentali di Ellis Swan, cantautore di Chicago, e del polistrumentista canadese James Schimpl, si fondono nuovamente in “Memory Thirteen”, a tre anni di distanza dal loro ottimo debutto “From The Basement”. 

L’album vive nel contrasto dei suoni, nella dicotomia degli umori e delle atmosfere che fluttuano all’interno del magma post-rock. Tra le chitarre e i tappeti sintetici di questo disco, si muovono sonorità cangianti che dalla classica impronta del genere viaggiano verso visioni ambient, distorsioni math rock, flussi slowcore e shoegaze, tra attimi rarefatti, inquietudini pregne di rumori esili e oscurità ritmica. 

Loop, beat e feedback, divagazioni dolci e scure destrutturazioni, lambiscono l’intero disco a partire da ‘Two Clocks’, dal caratteristico impianto post-rock. La “titletrack” plana su intense meditazioni sonore, mentre ‘Blackbird‘ muta e si plasma nel getto sintetico e distorto del suono. ‘Circus’ è costruita su un’elegia dolce e spettrale. ‘Peel Me An Orange‘ è la disperazione in musica, stridente sul suono stesso. ‘Somewhere To Wait’ ha echi dal sapore filmico e le tenebre calano su ‘Perfume’. A chiudere l’album ci pensano i deserti di ‘Accross The Road’

C’è una vasta gamma di sentimenti all’interno di questo disco, un mondo dal sapore cinematografico e dall’animo noir. “Memory Thirteen” dimostra come a volte non servano le parole per creare uno splendido cosmo di umori in balia di luce e buio, carne e spirito, veglia e sonno, sogno e incubo, contemplazione profonda e distorsione. Basta il suono per vivere un’esperienza notturna, attraversando il pensiero stesso a occhi chiusi.

(pubblicato su www.xtm.it)

Ty Segall – Three Bells

Dopo le avventure sonore di Freedom’s Goblin (2028) e le anime acustiche di Hello, Hi (2022), torna Ty Segall, col suo quindicesimo album, Three Bells. Il disco custodisce l’interessante profondità cangiante e variegata del sound che spazia tra distese elettriche e derive acustiche, elaborazioni cerebrali e spontaneità casuale, attimi di morbidezza e momenti di ruvida energia, di amore e violenza.

Il tocco della sperimentazione di Ty Segall si muove selvaggia all’interno di un affascinate e mutevole universo sonoro, scandagliando lo psych-rock, lambendo il garage-rock, esplorando il folk-prog, girovagando in territori più heavy. Nasce così una fotografia musicale che sembra scattata a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, ma con quel piglio “digitale” più contemporaneo. 

Il disco è stato co-prodotto da Cooper Crain e, come il precedente Hello, Hi, Ty Segall si avvale della collaborazione della moglie Denée, in fase di scrittura e alla voce, e della Freedom Band. Ci si lascia facilmente coinvolgere da questo bizzarro, imprevedibile, polimorfo, quanto raffinato, flusso di coscienza sonoro già a partire dai vortici di The Bell e dalle dissonanze di Void. L’incedere di My Best Friends è contagioso, un po’ come il suo videoclip girato e diretto dallo stesso Segall, che vede come co-protagonista il suo cane. Ci sono poi le onde spirali di Reflections, la dissennata acidità di Eggman e la ninna nanna sghemba di chiusura What Can We Do.

Un album che sembra rispecchiare appieno l’imprevedibilità folle ed eccentrica del subconscio, quello che nei contenuti lo stesso Segall ha affermato di voler esprimere e assecondare. Three Bells è dunque un’esplorazione in musica di sé stesso, tra schiaffi e carezze, delusioni e dolcezza, ma in fondo sembra essere anche lo specchio di un’interiorità più ampia e globale, e nell’eclettismo stratificato del sound riesce a trovare la sua affascinante consapevolezza. 

To realize, to be alive

The point where we begin and die

There is no separation

My three bells inside”

(pubblicato su www.xtm.it)

Top 2023: My personal Playlist

“Morality is cruel you know

And now we stand in line”

Gli album del 2023 che ho ascoltato tanto. Non è una classifica (mai amate), ma semplicemente ascolti intensi che hanno segnato mie importanti tappe esistenziali di quest’anno.

Index For Working Musik – Dragging the Needlework for The Kids at Uphole

Swans – The Beggar

Föllakzoid – V

The National – First Two Pages of Frankenstein

dEUS – How To Replace It

Goat – Medicine

The Murder Capital  – Gigi’s Recovery

Lalalar –  En Kötü Iyi Olur

Mandy, Indiana – I’ve Seen A Way

Esben and the Witch – Hold Sacred

Sparklehorse – Bird Machine

 Yo La Tengo – This Stupid World

Lalalar –  En Kötü Iyi Olur

Anatolian Psych sound, spruzzato di corposa elettronica e di attitudine post-punk. Questa è in sostanza la formula sonora dei turchi Lalalar. Muovendosi sempre al confine tra oriente e occidente, tra strumenti tradizionali, verve rock e synth copiosi, Ali Güçlü Şimşek, Barlas Tan Özemek e Alican İpek, tornano dopo l’ottimo esordio di “Bi Cinnete Bakar” con il nuovo disco, “En Kötü Iyi Olur”.

In En Kötü Iyi Olur l’urgenza punk abbraccia il caleidoscopio psichedelico e la modernità dell’elettronica, con qualche incursione nel funk e nell’hip hop. Come il precedente, anche questo disco sprigiona anarchia, indipendenza sonora e testuale, e custodisce sempre un messaggio politico, che acquisisce forza enigmatica e misteriosa, ancor più se non si mastica la lingua turca. 

Un frullatore contagioso di suoni ed emozioni che parte con il ritmo di “Avucunu Yalıyor” e si muove tra le oscure macerie industriali di “Grejuv” e cadenzate di “Aynı Bokun Mavisi”. “Hem Evimsin Hem Cehennemim” ha la spinta da clubbing, mentre “Sekerleme” sembra un quadro esotico contemporaneo. L’accelerazione che sembra viaggiare oltre i 180 bpm invade con forza “Göt” e l’elettronica modella “Yaşamaya Bahane Ver”. Chiudono “Yarın Yokmuş Gibi” e il dub morbido di “Serüven 101”.

En Kötü Iyi Olur immerge l’ascoltatore all’interno di visioni arcobaleni e allucinazioni più oscure, sempre con dinamismo sonoro e positività contagiosa. È un po’ come danzare la techno in un club mentre si fa contemporaneamente meditazione, tuffandosi tra passato, presente e futuro. Un luna park di suoni affascinante ed energico che non lascerà delusi. 

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Goat – Medicine

Tornano gli sciamani del suono, tornano i Goat e i loro misteri ritmici con l’album “Medicine”. La loro formula magica è da sempre un sogno che si muove sulle linee della psichedelia spruzzata di world music, quest’ultima un po’ meno marcata che in passato.

Medicine è infatti un disco di hard psych, in un certo senso più dolcemente bisbigliato rispetto ai precedenti lavori, meno urlato e corporale, ma non meno carico di potenza suggestiva. Medicine è visione cosmica, siderale e ammaliatrice di suoni, nella quale convivono fuzz e wah-wah astrali, synth ancestrali, sonorità liquide su tappeti di flauti modulari e lunghe digressioni acustiche. È un album che tra le maglie sonore, cela l’antidoto, la cura, la medicina appunto a grandi temi esistenziali. 

In questa visione totalizzante di ritmi e testi, si viene iniziati all’ascolto con i vortici di “Impermanence and Death” e poi catapultati tra le cavalcate soniche di “Raised By Hills”. “I Became The Unemployment Office”, scava groove sensoriali che si espandono all’infinito. “TSOD” modella drappeggi lisergici, mentre Vakna è ruvida deformazione sonora. “You’ll Be Allright” muove spazi astrali. La follia di “Join The Resistance” è invece una cover di un brano dei GÅS, band nella quale forse, il mistero rimane, ci sono membri dei Goat stessi. La ballata distorta “Tripping In The Graveyard” chiude il disco.

Medicine è in definitiva un rituale meditativo, appagante e introspettivo, in grado di trasformare la carne in spirito. Un’esperienza di ascolto caleidoscopica e primordiale capace di dilatare tempo e spazio, facendoci uscire da noi stessi, oltre i confini dell’universo. 

“Shall we practice a little meditation together?”.

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Esben and the Witch – Hold Sacred

“I am down here, in my chapel,

Where I’m safe from the evils of the world.”

Hold Sacred, sesto album firmato Esben and the Witch, è una sorta di esperienza spirituale immersa all’interno di una visione sonora minimale, introspettiva e meditativa. È un disco che gravita attorno alle fragilità della mente umana e alle profondità più vulnerabili dell’anima, con melodie intrise di riverberi, stratificate su field recording suggestivi e sulle carezze vocali di Rachel Davies. Hold Sacred suona diverso dal resto della produzione targata Esben and the Witch. Suona puro e delicato, custodendo una magia meno oscura degli esordi, più rarefatta, bianca come il fascino atavico che emana. Rachel Davies, Thomas Fisher e Daniel Copeman edificano così un disco pregno di spiriti, disperazione e ombre, luci, bagliori e speranze fatto di brani incantevoli, emanazione e supplica dell’Io. 

The Well naviga nella soave delicatezza neo-folk, mentre In Ecstasy nell’immateriale sintetico e psych. Fear Not giace su landscape slowcore, A Kaleidoscope su minimalismi shoegaze. Petals Of Ash chiude il disco con la sua tenue e sinuosa oscurità.

Hold Sacred è un album speciale e personale, che scova la bellezza nel raccontare l’inquietudine. È un disco interiore, di emotività sincera che attraversa tutto il buio e tutta la luce che ognuno porta dentro. È cura per l’anima e riflesso dell’ anima stessa.

(pubblicato su www.xtm.it)

Playlist


Neo – Psychedelia

I Put A Spell On You – La playlist magica

Post – Punk

Industrial

La playlist allo specchio

Canzoni con o senza flash

Canzoni al telefono

Back To School

La playlist che fa Miao

You can leave Your Hat On – La playlist col cappello

La playlist per sognare 

La playlist riflessiv-estiva


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The National – First Two Pages of Frankenstein

“Your mind is not your friend again 

It takes you by the hand 

And leaves you nowhere”

First Two Pages of Frankenstein dei The National è suono della mente, proprio come il verso del brano Your Mind Is Not Your Friend. È rarefatto, lento, soffice, intimo e sofferto. È un disco che trasuda emozioni, tra le melodie che ti avvolgono e i testi che creano un cortocircuito del pensiero, portandoti a riflettere. Un album che arriva dopo quattro anni dall’uscita di I Am Easy To Find, dopo un periodo difficile di blocco creativo e depressione per Matt Berninger e per la band, tanto da credere che il loro percorso musicale fosse ormai giunto al termine. First Two Pages of Frankenstein conserva la cifra stilistica del gruppo, quella più introspettiva e malinconica, fatta di arrangiamenti raffinati, di melodie minimali adagiate sulla voce baritonale, sussurrata e sofferta di Berninger, su chitarre immateriali e sull’intensità morbida del drumming. Il tutto è impreziosito dalle partecipazioni di Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers, Taylor Swift e della London Contemporay Orchestra

L’album si apre col featuring di Sufjan Stevens nella struggente ed evocativa Once Upon a Poolside e prosegue con la tensione di Eucalyptus e la malinconia dolce di New Order T-Shirt che esplorano il baratro delle relazioni interrotte. Ci sono poi i duetti con Phoebe Bridgers nel brano This Isn’t Helping e ancora in Your Mind Is Not Your Friend , dove la contrapposizione tra piano, batteria e violini crea profondità e intensità al pezzo. Alcott si muove invece nel morbido incrocio delle voci di Berninger e Taylor Swift. C’è infine spazio per fumose divagazioni elettroniche in Tropic Morning News. 

“First Two Pages of Frankenstein” è un disco elegante e fortemente emotivo. Come il Frankenstein di Mary Shelley, attraversa gli abissi del doppio interiore, disvela quei mostri psichici e quotidiani che hanno bisogno di essere afferrati da qualcosa o da qualcuno per essere compresi e dimenticati. È proprio in questa narrativa musicale che risiede la forza di questo album, da ascoltare nel silenzio di quei pensieri che spesso bloccano, divorano e tolgono il respiro.

(pubblicato su www.xtm.it)